Diamo uno sguardo al periodo storico che ha ispirato i nostri paesani, offrendo lo spunto per quella che è stata – per moltissimi anni – l’unica rievocazione storica in costume gotico.
Sommario
- Anno 542 d.C. Arriva Totila l’Immortale
- Anno 543 d.C. Totila il signore della guerra
- Anno 544 d.C. Belisario nuovamente a Ravenna – La strategia di Totila
- Anno 546 d.C. Totila a Roma – Belisario la riconquista
- Anno 547 d.C. Roma si svuota
- Anno 548 d.C. Tutto l’occidente in mano ai barbari – Giustiniano chiama Narsete contro Totila
- Anno 549 d.C. Totila scende in Sicilia – Il fallimento della flotta bizantina
- Anno 550 d.C. Il generale Narsete
- Anno 551 d.C. L’armata di Narsete
- Anno 552 d.C. La grande armata di Narsete
Anno 542 d.C. – Arriva Totila l’Immortale
Il suo vero nome era Baduila ma per le sue coraggiose gesta, durate un decennio, gli fu dato (e non solo dai suoi uomini) l’appellativo di Totila che significa l’immortale. Al giovane Totila, dopo l’eliminazione dell’inetto predecessore Erarico, avevano appena offerto la corona di re dei goti che subito si mise a formare una compagine di validi uomini pronti a partire per una campagna militare di riconquista del territorio perduto e di quello che, anche per colpa del caos che c’era proprio fra goti, stavano ulteriormente perdendo.
Guidando 5000 uomini, attraversò il Po e puntò su Verona. Qui un generale bizantino, Artabazo, col tradimento (oltre il Po era tutto territorio Goto in base al trattato di Giustiniano) era entrato nella città usurpandola e asserragliandosi con i suoi uomini dietro le potenti mura della fortezza. Totila la assediò, ma poi mandò un’ambasciata agli imbarazzati abitanti della città; voleva che gli si consegnasse il traditore. Promise, dando la sua parola d’onore, che avrebbe subito abbandonato la città senza provocare né danni né rappresaglie. I veronesi quasi si lasciarono convincere da quel biondo “principe azzurro”, ma non sapevano però decidersi; le parole d’onore in giro pochi le rispettano. E poi chi era questo Totila? Chi lo conosceva? E se i bizantini si arrabbiavano e facevano una rappresaglia sulla città? Trovarono la soluzione: farlo fuggire fuori dalle mura; poi avrebbe dovuto arrangiarsi da solo. A liberazione appena avvenuta comunicarono a Totila la sua fuga. Forse indicandogli anche la direzione. Artabazo con il suo seguito iniziò la sua lunga fuga cercando di raggiungere Faenza. Ma Totila, messosi subito al suo inseguimento, lo tallonò finché lo raggiunse e lo annientò.
Di lì passò a Bologna e si diresse verso il Mugello, valicandolo senza problemi. Poi fu la volta di Firenze e dopo una breve resistenza della città difesa dal bizantino Giustino, la conquistò. Ora al re goto si era spalancata la porta per tutta l’Italia centrale. Mentre i generali bizantini si chiudevano dietro le porte delle fortezze, lui andava avanti, si spostava ad est e prendeva la strada di Pontassieve verso il Passo del Muraglione per scende su Forlì, Faenza, Cesena, Urbino, Montefeltro. Senza tanti ostacoli, proseguiva e passava abilmente, senza toccare Roma, verso la Campania dove le risorse alimentari non erano ancora state falcidiate dalla decennale guerra che imperversava al nord. Nel mostrarsi mite e saggio con le popolazioni, ricevette non solo simpatia, ma invogliò molti a unirsi a lui. Soprattutto quando liberò migliaia di servi dallo sfruttamento dei loro gretti padroni. Infatti, Totila non saccheggiava nessuna città o paese, ma vi entrava – riferiscono le cronache anche dei suoi nemici – “esercitando una giustizia proverbiale” mentre [ndr] “col suo fascino e la sua sicurezza esercitava un nuovo rispetto del tutto sconosciuto alle popolazioni” (Cit. Procopio).
Nei territori dove Totila prese a governare non eliminò le tasse, ma agli ex taglieggiati, propose di affidare solo a lui i denari, cioè al fisco regio, sottraendoli ai corrotti funzionari che ormai erano diventati i loro padroni perfino dell’aria che respiravano; prometteva e soprattutto convinceva che lui dei loro denari ne avrebbe fatto un buon uso. Persino i poveracci gli versavano fino all’ultimo centesimo, vedendolo così sicuro, con tanta fiducia in se stesso, ma soprattutto perché si presentava con grande signorilità e onestà. Quelli impoveriti dalla guerra decennale, ormai ridotti alla fame, si fecero talmente affascinare che corsero perfino ad arruolarsi, andando così a rafforzare ulteriormente il suo esercito. L’offensiva di Totila stava dunque appena iniziando mentre i Bizantini che non avevano un vero e proprio esercito, ma solo modesti presidi, erano costretti a rinchiudersi dentro le loro città fortezze: Ravenna, Ferrara, Modena, Perugia, Spoleto, Roma, e Napoli, fino ad Otranto.
Anno 543 d.C. – Totila il signore della guerra
Totila, all’inizio della sua campagna sulla penisola, dopo aver conquistato quasi l’intera Italia centrale esclusa Roma che si era lasciato alle spalle, si era diretto verso il meridione, puntando su Napoli piuttosto ben difesa da una inespugnabile fortezza. Conone, il generale bizantino che si era asserragliato dentro le mura per resistere ai goti, dopo l’estenuante assedio messo in atto da Totila fu costretto alla resa per mancanza di viveri. Totila entrò allora in città con le sue truppe, ma invece di saccheggiarla come tutti si aspettavano, e come tutti erano soliti fare, per prima cosa impartì ai suoi uomini l’ordine di soccorrere la popolazione provata dalla fame e dai disagi; fece procurare nei dintorni e portare dentro la città grandi quantità di viveri di prima necessità; ripristinò i servizi essenziali, e trovò il tempo di ricevere con signorilità i funzionari locali, e perfino una delegazione di romani giunti dalla città eterna; costoro impressionati da questo giovane cavaliere dalle buone maniere che aveva solo sfiorato la loro città, lo vollero conoscere per sapere quali fossero le sue intenzioni ed eventualmente trattare. Era chiaro che Totila appena si fosse disimpegnato nel sud avrebbe puntato anche su Roma: oltre che essere un guerriero coraggioso e intelligente, non era uno sprovveduto neppure in politica. Alla delegazione romana fece all’incirca questo discorso: “Come vedete io non faccio il barbaro, quando entro nelle città non distruggo nulla né faccio razzie. Quindi quando verrò a Roma, se il senato romano mi accoglierà come signore e non come “barbaro” io mi comporto da signore, ma se i pregiudizi mi saranno contro, allora Roma me la prenderò a mio modo, e purtroppo per voi sarò costretto ad assediarla provocando disagi e sofferenze alla vostra città”.
Dello stesso tenore dovette essere il contenuto di una missiva inviata a Costantinopoli a Giustiniano, ma l’imperatore ricusò ostinatamente di trattare con un barbaro, con un usurpatore dei suoi territori. Probabilmente Giustiniano non aveva informazioni esatte dalla penisola italica, né gli avevano riferito che Totila si stava comportando bene, che stava conquistando i territori senza provocare danni né a cose né a persone. Giustiniano e i suoi collaboratori erano invece convinti che per eliminarlo occorreva attaccarlo inviando un grande esercito e un buon generale. La scelta ricadde nuovamente su Belisario che, nonostante “tanta invidia per la sua popolarità” (Procopio), considera ancora l’unico generale capace di contrastare questo formidabile nemico apparso all’orizzonte. Bisognava anche fare in fretta perché, dopo la conquista di Napoli, Totila stava marciando verso le Puglie, verso Otranto che non era una città qualunque, ma il porto dove facevano la spola e si rifornivano le navi imperiali.
Le intenzioni erano di preparare una flotta e un grande esercito, ma quando Belisario si trovò a partire, del grande esercito promesso c’era ben poco, e non c’erano neppure i fondi. La nuova “avventura” in Italia di Belisario cominciava ad essere già fallimentare fin dalla partenza. Le ragioni erano molteplici: nello stesso periodo si stavano verificando alcuni scontri in Africa, in Persia e nella zona Danubiana, ed a Bisanzio occorrevano fondi e truppe per questi territori in pericolo. Allora, secondo Procopio, era più utile con una volontà politica più pacifista per trattare con Totila. Purtroppo, non ci fu questa volontà, e l’Italia per altri dieci anni vedrà distruggere le sue città, vedrà paesi e contrade affamate, vedrà campagne spopolate di uomini. Resero poi libera la penisola dalla dominazione barbarica, ma con le nuove sventure provocate dalla presenza degli arroganti soldati e gli imperiali con la loro avidità, a Roma, a Napoli, a Milano, i bizantini con le loro spoliazioni fecero rimpiangere i “barbari” di Totila. Il danno non fu solo questo. Con la guerra portata tutta al centro e al sud dell’Italia, nel nord ormai tutto indifeso si infiltravano masnade di ogni genere che spadroneggiavano in valli e in pianure, dal Friuli fino al Piemonte, razziando e distruggendo quel poco che era rimasto.
Correva proprio l’anno 543 d.C quando Riggo (o Arrigo), luogotenente di Totila l’Immortale, durante l’assedio di Perugia avrebbe creato sulle colline sopra il lago Trasimeno un insediamento fortificato: l’accampamento di Arrigo (in latino Castrum Rigonis) fu il nucleo primordiale sul quale, nei secoli successivi, sarebbe sorto l’abitato di Castel Rigone.
Anno 544 d.C. – Belisario nuovamente a Ravenna – La strategia di Totila
Quando a Costantinopoli, dopo i preparativi, venne presa la decisione di salpare per l’Italia, del grande esercito che Giustiniano aveva promesso a Belisario, incaricato di guidare la campagna in Italia, c’era appena l’ombra. Pochi gli uomini, poche le navi e pochi i fondi. Giustiniano sembrava aver dimenticato l’Italia e il “problema Italia”.
Belisario in queste condizioni si sentì fin dalla partenza impotente, non sapendo ancora chi dovesse affrontare, ne conoscendo ancora Totila! Il generale amareggiato e sperando solo nella fortuna partì comunque. La direzione presa fu quella verso Otranto, la città portuale bizantina più in pericolo. Sbarcato la rifornì di armi e sistemò alcuni soldati per rinforzare le difese in caso di un attacco dei goti, ma non andò oltre il porto; subito dopo riprese il mare e si diresse al porto di Ravenna. Acquartierate le sue truppe dentro la fortezza, lui si barricò nel palazzo di corte, aspettando gli eventi. Questo era un atteggiamento che non rientrava nel suo carattere, lui aveva sempre preferito fare guerra di movimento, e i nemici era solito scovarli e affrontarli nei loro territori. Tuttavia, nelle condizioni in cui si trovava, non poteva fare altro. Rimase nella fortezza tutto l’ anno anche perché i goti erano impegnati altrove. Intanto, nel resto d’Italia, dopo Napoli e dopo l’assedio di Otranto a cui Totila aveva però rinunciato con l’arrivo dei rinforzi bizantini, l’esercito goto aveva ripreso la strada verso il nord risalendo la strada adriatica, con l’intenzione di espugnare prima Ascoli e Fermo, poi Spoleto. Mentre attraversava il lungo territorio, il prestigio e la notorietà di Totila aumentava, insieme al rispetto degli abitanti delle città conquistate, soprattutto grazie alla proverbiale giustizia che esercitava. La sua fama iniziava ad entrare non solo nell’immaginario collettivo dei goti, ma anche a far breccia nel cuore nelle popolazioni italiche. Il suo nome e la sua leggenda entravano nelle città prima ancora che il capo goto vi giungesse. La stessa Roma era consapevole che da un momento all’altro Totila sarebbe piombato sulla città e una buona parte della popolazione era disponibile a trattare, ma un’altra fazione, favore del governo bizantino, invitava gli avversari a non farsi illusioni e a non correre avventure. Se avessero fatto entrare e accettato Totila come signore -esautorando i bizantini- e poi anche lui per qualche accidente o un altro pugnale nella schiena fosse morto, la punizione di Giustiniano per questo atto di “tradimento” non si sarebbe fatta di certo attendere. Quindi l’unico suggerimento in caso di assedio era quello di resistere ad ogni costo, fino all’arrivo di rinforzi. Sapevano del resto che erano già sbarcati a Otranto, ma non certo immaginavano che Belisario invece di risalire la penisola fino a Roma, aveva ripreso il mare e si era barricato dentro le mura di Ravenna.
Il fascino personale di Baduila che incantava tutti quelli che lo avvicinavano, la spavalderia che gli veniva dalla sicurezza, il coraggio che mostrava nell’esporsi sempre quando il suo esercito affrontava il nemico e la persistente fortuna di uscire indenne sempre ad ogni violento scontro, gli valsero l’appellativo di “immortale”, cioè Totila. Quello che iniziava ora a preoccupare era la sua strategia: non era certo quella del solito capo barbaro che andava allo sbaraglio. Totila si stava muovendo sulla penisola con lucidità e accortezza straordinarie. Nessuno dei suoi predecessori, scendendo a sud, aveva mai ignorato Roma. Invece Totila, scendendo da Firenze a Napoli, si era già una volta lasciato alle spalle la grande città e quell’anno, dalle Puglie risalendo la costa adriatica, ignorò la città eterna un’altra volta. Totila aveva infatti conquistato i territori a sud e ora le sue intenzioni erano quelle di occupare le località da cui passavano le comunicazioni fra Ravenna e Roma. Così poteva prima assediare e conquistare la isolata Ravenna e poi, come ultimo e definitivo obiettivo, avrebbe attaccato Roma ormai isolata. A Belisario tutto questo apparve molto chiaro: lui era un grande e vecchio generale, reduce da mille battaglie e sapeva benissimo valutare le geniali mosse dell’avversario. Sarà proprio Belisario a dire nei momenti di disperazione quando inutilmente iniziò l’anno successivo a combatterlo in campo aperto: “Con lui c’è Dio, ed è sempre al suo fianco”. Il generale era già disperato quando giunse a Ravenna con pochi uomini. Ora sperava che prima di fine anno – e prima del grande scontro o prima di un grande assedio – Giustiniano si ricordasse dell’Italia, di lui, e gli inviasse dei rinforzi. Ma Giustiniano quell’anno non aveva proprio intenzione di occuparsi di cose militari né tanto meno dell’Italia. Oltre che prestare molta attenzione e controllare ogni attività dell’impero -anche perché era costantemente bisognoso di denaro- iniziava con un “attivismo confusionale” (cit. Procopio) ad occuparsi anche di cose teologiche, sfoggiando nelle controversie la sua eminente oratoria. Del resto, Giustiniano oltre che voler essere il degno erede dei cesari, voleva anche essere degno erede di Costantino: capo supremo del grande Impero riunificato, e capo supremo della Chiesa. Anche lui credeva di essere l’uomo che le Divinità, nel suo caso il Dio cristiano, aveva scelto per dirigere gli affari umani in terra. Fare l’imperatore era insomma solo una missione.
Anno 546 d.C. – Totila a Roma – Belisario la riconquista
A inizio anno Totila perdette Bologna, ma conquistò Ascoli, Fermo e ottenne Spoleto. Si portò quindi a Roma, non la assediò, ma si accampò alle sue porte, in attesa di eventi che avrebbero potuto sbloccare la situazione a suo favore. In effetti nella capitale si era già creato un partito con buona disposizione, anche se i due editti precedenti, quello di Teodorico che voleva cacciare i cristiani e quello di Giustiniano che voleva cacciare gli ariani, avevano da tempo fatto nascere nei reciproci gruppi delle intolleranze. Papa Vigilio, ancora schierato con Costantinopoli come politica ma non come Credo, propendeva a favore di Giustiniano, anche se come abbiamo già in precedenza accennato, venne quell’anno rapito e convinto con metodi piuttosto drastici ad adeguarsi. La nobiltà, vedendo sfaldarsi in queste circostanze l’amministrazione dell’impero, intuì che in questo modo la situazione disorganizzata non avrebbe colpito solo i popolani, la plebe, ma anche loro.
Belisario, ricevuti rinforzi dalla Dalmazia, tentò di sbloccare la situazione a Roma; risalendo dalla Calabria ottenne qualche successo ma, quando tentò anche in Campania, i bizantini furono sconfitti a Capua. Intanto a Roma alcuni mercenari isauri[1] con il tradimento aprirono le porte della città eterna ai goti. Il 17 dicembre Totila fece il suo ingresso nella città. Il diacono Pelagio gli andò incontro chiedendogli accoratamente di risparmiare la città, già così duramente provata dalla fame e dalle malattie dopo mesi e mesi di assedio. Totila mostrandosi mite gli confermò e gli diede l’assicurazione che i suoi uomini non avrebbero toccato nulla. Totila tentò ancora con alcuni notabili di trovare un accordo e, o per opportunismo o per sincera volontà, la disponibilità a trattare era possibile senza estremizzare. Purtroppo, da Costantinopoli non arrivò nessun messaggio distensivo, l’ordine tassativo a Belisario è quello di riconquistare Roma dando battaglia ai goti. Altro ordine impartito da Giustiniano a papa Vigilio, era quello di imbarcarsi e di raggiungere Costantinopoli. Nel frattempo, Totila abbandonata Roma si diresse verso il Sud muovendo alla conquista delle città meridionali. Ne approfittò Belisario, rioccupando Roma. Ora papa Vigilio non aveva più la scusa dell’assedio per evitare il viaggio, e quindi fu costretto a fare i preparativi per recarsi a Costantinopoli e ridiscutere la questione dei Tre Capitoli, che aveva tentato sempre di rimandare.
[1] Isauria era il nome di un’antica regione nel sud della penisola anatolica, la cui posizione variò sensibilmente nei secoli. Essa corrisponde grossomodo alla parte sudoccidentale dell’attuale provincia turca di Konya. (fonte: Wikipedia)
Anno 547 d.C. – Roma si svuota
Il ristagno di questa situazione che sembrava non avere uno sbocco di pace a causa dell’intransigenza di Giustiniano a non trattare con Totila, fece da preludio a brutti giorni per Roma. Dopo tre assedi, e nonostante la magnanimità di Totila nell’ultimo, la popolazione, soprattutto quella un po’ benestante che aveva molto da perdere, di fronte a decisioni vaghe, o a quelle risolutive che però non arrivavano da Bisanzio, e che non davano di sicuro un promettente avvenire, iniziò a lasciare la città, si disperse nelle campagne, usci dalle mura, non volle più vivere giorni di incubo come quelli di Venice (l’assedio di un anno), o l’ultimo subito da Totila. In questa critica situazione, malgrado il nuovo rientro di Belisario, intuì che se Totila avesse attaccato con il suo esercito enormemente superiore a quello dei bizantini e avesse deciso di non fare più il mite e il generoso, per Roma non ci sarebbe stato più nulla da fare. La vita all’interno della città era ormai paralizzata, non più schiavi a disposizione da quando li aveva liberati tutti Venice, non più servi per i lavori umili, non più contadini nelle campagne, i commerci paralizzati per mancanza di merci, numerose malattie che si portavano alla tomba anche gli ultimi sani scampati, ed infine un grande numero di gente povera e vecchia che non potendo emigrare si trascinava lurida e stracciata a chiedere elemosine, ad appoggiarsi alle istituzioni benefiche del clero che comunque poteva fare poco o niente, perché non riceveva più contributi dalla corte bizantina. Giustiniano a Costantinopoli, ormai vecchio, nella sua immanente misantropia era assorbito sempre più nelle sue astratte discussioni teologiche e sembra aver dimenticato Roma, le città d’Italia e l’intera provincia. Teodora -che morì l’anno successivo- per voler imporre a tutti i costi il Credo monofisita alla chiesa romana, tagliò volutamente viveri e risorse economiche al clero. Non se la passava meglio neppure i nobili, i grandi proprietari terrieri che, vedevano in un vortice deflazionistico cadere di valore le loro proprietà ogni giorno, ad ogni risveglio. Tutti abbandonavano poderi, campagne, case, oggetti di valore, ma nessuno acquistava, nessuno si azzardava; questo provocava ancor di più la psicosi della fuga, e la voglia di fuggire si faceva strada anche nel più ottimista. Mentre i pessimisti, oltre l’angoscia contingente del disastro economico, cercavano la fuga per mettere in salvo la pelle.
Gli stessi pensieri dovevano attraversare la mente di Belisario e dei pochi bizantini ai suoi ordini. Dopo che Totila aveva abbandonato la città e si era diretto a sud, nonostante la riconquista del generale bizantino, Roma era ormai una città vuota. Forse poco più di 40/50.000 abitanti ma pochissima gente valida per difenderla. Se Totila fosse ritornato ad assediarla, sarebbero bastate poche ore per rioccuparla, e questa volta pochi speravano nella sua generosità. Il generale bizantino, colto dallo sconforto, mandò a dire a Giustiniano di richiamarlo, che lui non poteva fare più nulla, non aveva più né la forza, né la volontà, né un esercito per continuare una guerra così anomala, così svuotata di eroismi, così demotivata nella fatalità incombente, così umiliante perché era una lotta estremamente impari. Quando entrò a Roma possiamo solo immaginare cosa Belisario trovò per le strade: mummie, vite spente, negozi vuoti, e solo degli straccioni che si aggiravano per la città trascinandosi dietro miseria e morte. Totila, saputo della riconquista di Belisario, lasciò momentaneamente la Calabria e con una parte dell’esercito ritornò su Roma, ma presso Tivoli dovette affrontare un’aspra battaglia con Belisario che, nonostante tutto, il bizantino vinse, costringendo il Goto a far ritorno sui suoi passi in Calabria.
Anno 548 d.C. – Tutto l’occidente in mano ai barbari – Giustiniano chiama Conone e poi Diogene contro Totila
Nel frattempo, lasciata la Calabria, Totila tornò al centro Italia assediando Perugia che si diede per fame a lui, anche perché la sua fama di mostrarsi mite con gli abitanti lo precedette. In certi casi facevano meno danni i goti cercando di farsi accettare che i bizantini. Questi ultimi si comportavano come padroni, saccheggiando le città dove sostavano, imponendo la formale imperiale requisizione di ogni cosa.
Alla fine, Giustiniano accolse il sollecito di Belisario e lo richiamò a Costantinopoli. Sulla piazza di Roma a sostituirlo ed a comandare l’esercito venne destinato il generale Conone, uomo che aveva già perso a Verona contro il re dei goti. Tuttavia, la sua permanenza fu di brevissima durata, infatti morì dopo pochi mesi, rimettendo nuovamente in gioco e in crisi la città. Gli subentrò il generale bizantino Diogene che, per quanto avesse voglia di organizzarsi, mise insieme un esercito non solo incapace di attaccare ma neppure capace di difendersi. Comunque, i bizantini avevano ben poco da difendere perché Roma non aveva neppure una sentinella nelle mura e le indifese porte Aureliane erano completamente aperte. Non migliore sorte toccò all’intera penisola. Infatti c’erano solo quattro città dove anche un modesto presidio bizantino era in grado di difenderle: Ravenna, la più fortunata, era sempre stata per tutti difficile da assediare a causa delle infide paludi e del mare che la circondava tutta; Ancona, anch’essa piuttosto tranquilla perché appollaiata su un promontorio, era imprendibile senza gravi perdite per i nemici; Crotone, perché posta su una millenaria fortezza tra i due fiumi Tacina, il Neto e il mare; infine Otranto, arroccata tra il mare e il fiume Idro che la facevano diventare un’isola, una piazzaforte imprendibile dal tempo dei primi greci. Tutto il resto era in mano ai goti.
Anno 549 d.C. – Totila scende in Sicilia – Il fallimento della flotta bizantina
Diogene, il generale bizantino subentrato alla difesa di Roma dopo la morte di Conone, oltre che non avere truppe sufficienti per contrastare Totila, aveva pure le ostilità di una fazione interna che, piuttosto dell’assedio, preferiva un’altra volta aprire ai goti le porte di Roma, peraltro poco difese e in decadimento. Paradossalmente, fu proprio Totila nel rioccupare la città a restaurare le mura ed a ripristinare i presidi alle porte. Dopo alcuni mesi, lasciatosi alle spalle una Roma abbastanza tranquilla, o almeno paga di non aver subito assedi e saccheggi, Totila ritornò in meridione, conquistando prima Reggio Calabria, poi Taranto, per poi riportarsi nuovamente a Reggio che fungeva da testa di ponte per assediare Messina, con l’intenzione di sbarcarvi per la conquista della Sicilia. La fretta di questa conquista era motivata dal fatto che i bizantini stavano organizzando la loro spedizione in Italia, puntando anche loro sulla Sicilia, per poi risalire la penisola ed affrontare i goti.
Giustiniano aveva affidato la flotta al generale Germano Giustino ma il bizantino non fece in tempo a sbarcare in Sicilia che venne colto da un colpo apoplettico. Fu un disastro, i suoi soldati entrarono nello sconforto, la leggenda di questo re goto che portava il nome di Immortale iniziava a serpeggiare anche in mezzo a loro, la superstizione metteva i pagani nell’angoscia, mentre Totila era per i cristiani il diavolo in persona, che si presenta bello, aitante, generoso e allo stesso tempo perfido e mortale. Totila partì da Reggio Calabria, attraversò lo stretto, prese Messina e poi proseguì per l’intera isola e nelle città lo aspettavano incantati, lo avvolgevano di simpatia aumentando così la sua leggenda. La popolazione rimaneva impietrita, senza far nulla per contrastarlo. L’Immortale nell’avanzare non combatteva neppure una sola battaglia, non impegnava un solo uomo, vinceva entrando semplicemente a cavallo nelle città con il suo seguito, senza colpo ferire, salutava tutti e sorrideva sempre; lui, con la signorilità di un vero principe, faceva sentire importante anche il più infimo funzionario che incontrava e lo metteva a suo agio senza alcuna altezzosità, e tanto meno suscitando timori di sorta.
Anno 550 d.C. – Il generale Narsete
Belisario dopo aver chiesto di essere esonerato alla guida dell’esercito bizantino in Italia, rientrato a Costantinopoli, non ritornò solo sfiduciato ma, dovendo giustificare la sua sconfitta, si scagionò davanti a Giustiniano attribuendo al goto il possesso di forze soprannaturali. Belisario affermava che Totila non era semplicemente forte ma che “era Dio stesso che marciava al suo fianco”. Giustiniano, più che credere alle forze soprannaturali, iniziò a considerare le forze in campo, finora sempre lesinate a Belisario. A Costantinopoli ci si rese conto che per combattere questo re goto (che più che con le armi conquistava la penisola con la saggezza a non usarle ed era quindi doppiamente pericoloso) non bastava più il solito esercito e la solita piccola flotta, ma bisognava fare ben altro. Ci voleva una vera e propria mobilitazione. Il disastro fatto registrare da Germano scosse la corte bizantina che, da tempo, stava dimostrando di non possedere né energia né capacità nel prendere impegnative decisioni.
Giustiniano convocò Narsete e lo incaricò di sbarazzarsi di Totila a qualsiasi costo. Il generale accettò ma volle un mandato pieno, che gli permettesse di organizzarsi come voleva lui e pretese la garanzia che avrebbe ottenuto dal tesoro tutti i soldi che desiderava. Fu dunque lui a organizzare l’esercito con tante armi, tanti soldati, e una adeguata logistica per i rifornimenti; non voleva fare la fine dei suoi predecessori che una volta messo il piede in Italia erano poi stati abbandonati. Lui aveva già avuto un’esperienza pessima con Totila: aveva permesso di far diventare la situazione a Ravenna e a Roma ancora più problematiche di quanto non fossero quando aveva bloccato Belisario a Ravenna, acconsentendo lui e convincendo Giustiniano (Procopio ci racconta che lo fece per invidia dei successi di Belisario) a firmare una pace che fin dal primo momento non prometteva lunga vita, non essendoci forze bizantine capaci di smorzare sul nascere un ricompattamento dei vari gruppi di goti. Ed infatti, partito Belisario e Narsete, i goti riuscirono nuovamente, dopo un breve periodo di anarchia, a ritrovare in Totila un intelligente ed esuberante condottiero per riportarli al riscatto. Dunque, Narsete si preparò ma, prima di partire, volle il comando assoluto delle truppe con carta bianca per le eventuali decisioni da prendere una volta in Italia. Le battaglie, diceva, “non si vincono né si perdono se Dio vuole o non vuole, si vincono sempre quando si è più numerosi e forti dei nemici”.
Narsete aveva un aspetto delicato, ma celava come uomo e come ufficiale una energia indomabile, un attivismo prodigioso e una volontà ferrea; fu generale un capace e ostinato che portò alla rovina i goti e cacciò le orde alemanne dall’Italia. Riuscì ad avere a sua disposizione la più grande armata mai affidata da Giustiniano a un suo generale: circa 30-35.000 uomini, pronti a salpare per le coste italiane, seguiti da navigli che dovevano poi in ogni caso, nella buona o cattiva sorte, costantemente rifornire l’esercito bizantino sulla penisola e, se necessario, anche di altri uomini pronti a imbarcarsi. Giustiniano acconsentì perché era ormai fermo il suo proposito di riconquistare l’Italia. Da notare che nel chiedere rinforzi dalle varie province, i bizantini chiesero anche l’aiuto dei Longobardi stanziati in Pannonia, che a loro volta erano stati aiutati dai bizantini proprio lo stesso anno nella lotta contro i Gepidi. Era quest’ultimo un popolo che non aveva mai smesso di contrastare l’invasione del proprio territorio, né voleva abbandonarlo, anche perché sui territori danubiani, sul mar d’Azov, sul Don e in Bulgaria già alcune orde di Avari (una popolazione turco-mongola) premevano sui confini; dopo pochi mesi la stessa Bulgaria sarebbe finita sotto il loro controllo.
Anno 551 d.C. – L’armata di Narsete
Il generale bizantino prima di partire da Costantinopoli, curò ogni particolare, preparò accuratamente la flotta, scelse personalmente i propri reparti, mise insieme circa 30-40.000 fra effettivi e riserve, tutti uomini capaci e non badò a spese: convinse i migliori comandanti a seguirlo. Curò l’equipaggiamento, fece fare nuove armi, navi leggere, veloci e non risparmiò in quelle che avrebbero dovuto servire di appoggio per i rifornimenti in caso di un improvviso assedio; inviò alcuni funzionari in Italia per preparare dei partigiani in ogni angolo, fece prendere accordi con la laguna veneta per procurarsi sul posto (che lui già conosceva bene) ogni tipo di barche leggere che allora si usavano e quasi assomigliavano alle grandi gondole di oggi. Volle dagli uomini del controspionaggio una relazione piuttosto dettagliata del territorio italiano, degli spostamenti alle volte improvvisi che faceva Totila, delle forze che possedeva e delle città che erano a lui di appoggio e quelle dove invece i bizantini potevano contare su una seria collaborazione. Narsete non lasciava nulla al caso; tutto doveva essere preventivamente definito con la massima precisione e col massimo scrupolo. Prese accordi anche con i Longobardi in Pannonia per farseli alleati e farli partecipare; questi ultimi stettero al gioco pur non nutrendo molta fiducia. Del resto, finora avevano sempre visto solo fallimenti nell’esercito bizantino, non credevano molto nel suo successo e avevano sempre un po’ di rispetto verso Totila che non aveva perso una sola battaglia. Il re goto dominava dal Friuli alla Sicilia senza aver subito nemmeno un rovescio.
Totila intanto lasciata la Sicilia, si diresse sulla Sardegna e sulla Corsica, conquistandole entrambe senza colpo ferire; poi si riportò sull’Italia, sbarcando nei pressi di Livorno. Qui subito gli venne segnalato lo sbarco di un generale bizantino ad Ancona, nell’unica parte di mare ancora accessibile ai bizantini; vi fecero approdare alcuni reparti guidati dal comandante Giovanni. Forse una manovra diversiva di Narsete che stava invece risalendo la Jugoslavia per portarsi verso Trieste. Totila, ancora una volta disponibile, chiese la pace a Costantinopoli, ma non ottenne neppure una risposta. Giustiniano aveva dato consistenti forze e mezzi a Narsete lasciandogli anche il compito di gestire questa guerra mentre lui era invece impegnato ad occuparsi di questioni religiose.
Il suo editto sui “Tre Capitoli” venne applicato dalla chiesa Orientale, e alle rimostranze del solito Vigilio, lui ordinò di arrestarlo. Il papa arroccandosi dentro S. Pietro a Costantinopoli, gli scagliava anatemi. Giustiniano depose il patriarca di Cesarea e condannò tutti quelli che non avessero applicato l’editto. Vigilio, tuttavia, continuò a lanciare anatemi contro l’imperatore, forse convinto anche di ucciderlo, ma si salvò a stento fuggendo nottetempo e rifugiandosi a Calcedonia, dove però si ammalò gravemente.
Anno 552 d.C. – La grande armata di Narsete
Il più grande esercito mai affidato da Giustiniano ad un suo generale si apprestava ad entrare in Italia. Varcato il confine, trovarono un contingente di Longobardi che, alla fine, rotti gli indugi diedero un appoggio ai bizantini. Narsete si diresse verso la laguna; qui ottenne tutte quelle barche leggere che servivano per arrivare agilmente quasi indisturbati su Ravenna, navigando lungo la costa. Lasciato un presidio a metà percorso, raggiunse Rimini, mentre l’esca buttata con il generale Giovanni su Ancona stava portando Totila a dirigersi su questa città. Narsete si preparava a prenderlo alle spalle, tuttavia il capo goto venne segnalato sugli Appennini e non sulla strada dove doveva essere se si fosse diretto ad Ancona; ciò indusse Narsete a cambiare i suoi piani, preferendo da Rimini scendere per la strada di Novafeltria-Sansepolcro, per poi proseguire e affrontarlo frontalmente in una gola del Valico di Scheggia, proprio tra Sansepolcro e Arezzo.
Il generale aveva dalla sua parte a favore il numero, un intero esercito, inoltre una valle come quella del Valico non permetteva tanta dispersione di uomini, bastava concentrarli tutti su una imponente forza d’ urto. Era il mattino del 3 giugno del 552! La manovra riuscì pienamente, lo scontro fu assicurato, e la vittoria non tardò a venire: Totila restò ucciso nello scontro. Quasi i bizantini non credevano ai loro occhi, restarono perfino increduli anche quando il formidabile nemico era ai loro piedi, morto, lui “l’Immortale”! Quando seppellirono i morti, compreso il suo corpo, non erano ancora convinti. Procopio lo storico, scrisse “riesumarono il cadavere per assicurarsi che veramente fosse morto, ed avendolo osservato a lungo, si decisero che veramente ormai l’Italia era conquistata”. Gli uomini del rimanente esercito di Totila, increduli anche loro, rimasti allo sbando si dispersero; non avevano più il loro dio, non avevano più come guida Totila l’immortale.
In mezzo a quelle colline si era consumata la fine di un grande condottiero dalle grandi gesta, per nulla barbaro, un grande e giovane eroe che aveva dato vita alla leggenda non con le azioni di guerra ma con le imprese di pace, esercitando “una giustizia che era diventata proverbiale” (Cit. Procopio).